(Adnkronos) – Ci sono anche 3 cervelli italiani all’estero, due donne e un uomo – in forze in strutture sanitarie e centri di ricerca, in prima linea nelle emergenze – fra i 100 personaggi più influenti del settore salute, selezionati dalla rivista ‘Time’ per il 2024. Paolo De Coppi, Francesca Dominici, Carlotta Pianigiani: un chirurgo pediatrico che con i suoi studi ha aperto la strada alla ‘coltivazione’ di organoidi da cellule del liquido amniotico; una biostatistica che ha sfondato il tetto di cristallo ad Harvard e usa la matematica per ‘inchiodare’ lo smog ai danni che provoca sulla salute umana; un’esperta sul campo, in prima linea ad Haiti e in tante crisi ed emergenze, con la sua ‘assistenza mobile’. Volti del Belpaese, biglietto da visita dell’Italia nel mondo. Il nome di De Coppi compare nel gruppo degli innovatori; quello di Dominici è nella lista dei ‘catalizzatori’, Pianigiani fra i ‘leader’.
Una vita tra laboratorio e sala operatoria
“Non mi aspettavo che sarei potuto finire in un elenco con Emmanuel Macron o Michael J. Fox”, sorride Paolo De Coppi, 52 anni, mentre prova a spiegare all’Adnkronos Salute cosa si prova ad essere celebrati dalla rivista ‘Time’. Una parabola scientifica, la sua, che lo ha portato da Padova a Londra, con in mezzo altre tappe in giro per il mondo (Amsterdam, Boston). E una missione che è stata la sua ragione per un ventennio: “Provare a trovare nuove soluzioni alle malformazioni congenite”. Chi è questo italiano influente trapiantato in Gb? “Fin dall’università ero uno studente un po’ strano: volevo fare il chirurgo, però ho iniziato a frequentare il laboratorio già mentre frequentavo Medicina. Facevo esperimenti, mi piaceva molto praticare la chirurgia, ma rispondendo a delle domande di base, capendo quello che succede” per esempio in una determinata malattia. E quindi, racconta raggiunto al telefono in una pausa dalla sala operatoria, all’inizio la mia “è stata un po’ una fuga” dall’Italia, “nel senso che, tornato” da un’esperienza all’estero, “allora era difficile nel nostro Paese pensare di poter fare insieme chirurgia e ricerca”, essere un chirurgo-scienziato. “Oggi in realtà questa ‘fusione’ si verifica sempre di più – riflette – I chirurghi del futuro saranno ingegneri, biologi che imparano la medicina. Se in chirurgia vuoi usare veramente il robot devi essere anche un ingegnere o un matematico, devi capire l’intelligenza artificiale, capire come puoi imparare, come le informazioni che il robot ha ti possono essere utili a migliorare la chirurgia, che non è più solo un atto tecnico”.
“Certo – puntualizza De Coppi – io mi diverto molto a stare in sala operatoria e la maggior parte del tempo adesso la passo proprio lì. Però quello che è importante per chi vuole fare questo lavoro è riuscire a dialogare con chi fa lo scienziato di base”. E lui lo ha fatto ad esempio con Mattia Gerli, altro italiano ‘geniale’, anima del laboratorio dove si sono concretizzate le principali scoperte, valse a De Coppi e al team l’etichetta di “innovatori” attribuita dal Time. Ma se il camice bianco fosse rimasto in Italia oggi sarebbe su quella lista? “Temo di no”, ammette. De Coppi è “un chirurgo fetale e neonatale”, in forze al Great Ormond Street Hospital di Londra. Si occupa dei suoi piccoli pazienti “prima della nascita”, già in utero. Con strumenti microscopici, “circa 3 millimetri”, una telecamera chiamata fetoscopio, il ‘camice verde’ italiano li opera per correggere difetti come la spina bifida, “riducendo anche la morbidità per la madre. Oggi abbiamo capito che intervenire sul feto porta un vantaggio anche per il recupero dopo la nascita”, permette di “evitare una successiva operazione”, eliminando anche “il trauma familiare correlato”. Questo in realtà, prospetta l’esperto, “è solo un primo passo” verso il futuro. “L’idea, quando sono andato a Boston”, una delle tappe intermedie di De Coppi per 3 anni di training, “era proprio quella di lavorare sulla ‘riparazione’ di organi fetali malformati”. In quel periodo a stelle e strisce “abbiamo descritto la prima possibilità di derivare staminali dal liquido amniotico”. Era il 2007. Oggi essere fra i 100 del Time in campo sanitario “riconosce quel lavoro e ciò che è venuto di conseguenza – dice – Va evidenziato il ruolo di Mattia Gerli e di tutte le persone con cui abbiamo collaborato per questo”. Fino alla meta più recente “degli organoidi” e alle prospettive future che apre questa possibilità di “derivare mini organi dal liquido amniotico”. Quali? “Dalle cellule del liquido amniotico si possono costruire organoidi che vengono dal polmone, dall’intestino, dal rene del feto”. E di questa svolta già oggi ne beneficia “la diagnosi prenatale”. L’imaging e la genetica “permettono di dire se il feto ha una malformazione, ma quello che non si riesce a dire alle famiglie è quanto sarà grave per il loro bambino”.
De Coppi fa l’esempio di un difetto del diaframma che fa alzare gli organi addominali fino a comprimere i polmoni del feto. “Noi possiamo intervenire in utero con un palloncino che viene messo nella trachea, ma un 30% di questi bambini con le malformazioni più gravi non sopravvive, e purtroppo non sappiamo dire ai genitori quali”. Una risposta può arrivare proprio dagli organoidi. Gli scienziati possono costruire “dei veri e propri mini-organi ‘avatar'” del piccolo, che permettono di simulare proprio gli effetti della sua malattia. “Bastano dalle 4 alle 6 settimane, veramente pochissimo se si pensa che la diagnosi viene fatta molto presto. Ed è il primo step, perché in futuro questi organi potrebbero essere utilizzati anche per terapie sempre più efficaci per il feto, che è poi quello che noi speriamo”. Ecco perché per De Coppi occorre “pensare a una chirurgia sempre più aperta, portare gli scienziati in sala operatoria” e i chirurghi in laboratorio. “E’ quello che ho trovato a Londra – assicura – L’ospedale in cui lavoro è fra i più grandi ospedali pediatrici, il quinto nel mondo come capacità di ricerca e di cura dei pazienti, è una realtà che ha davanti l’ospedale e dietro l’istituto di ricerca. C’è un corridoio che mi permette di andare dalla sala operatoria al laboratorio e questo è essenziale per la mia vita, una fortuna immensa. Lascerei tutto questo per tornare in Italia? In realtà ora si intrecciano anche le implicazioni familiari. Ho una moglie e due figlie di 22 e 18 anni che hanno una vita qui. Ma collaboro con realtà italiane come il Bambino Gesù di Roma, un centro di eccellenza con numeri sulla chirurgia malformativa da primato in Europa. Si può lavorare insieme, poco importa dove uno è di base, e mi piace poter dare il mio contributo e anche ricevere, crescere anche io”.
Tornando alla ‘sliding door’ che lo ha portato lontano dall’Italia, De Coppi spiega il senso della sua scelta: “I fondi per la ricerca sono sempre limitati. E’ vero che adesso ci sono più risorse e sicuramente c’è un atteggiamento molto diverso” che in passato. “Però io a Londra sono diventato primario a 34 anni, e non mi sembra che sia l’età media dei primari in Italia. Ma questo è un punto importante: la chirurgia la devi imparare” e metterla in campo al massimo delle potenzialità “tra i 30 e i 40 anni, perché dopo le skill motorie sono diverse”. Un chirurgo “è come un atleta”, “non può iniziare a 50 anni”. Quanto al futuro, De Coppi ha ancora un sogno scientifico nel cassetto da realizzare: “Far sì che si possano veramente trattare le malformazioni congenite utilizzando le cellule del paziente stesso per costruire tessuti e organi mancanti da trapiantare”. Lo scienziato col bisturi crede tanto in questo sogno. Orizzonte temporale? “Da 52enne mi prospetto altri 13 anni per arrivare a fine carriera. Spero che entro allora questa diventi una realtà”, conclude.
La super scienziata alle ragazze che sognano le Stem: “Non ascoltate chi vi dice no”
“Sono partita dalla periferia di Roma”, racconta Francesca Dominici, ‘regina di dati’ oggi sulla vetta di Harvard. Un lungo e faticoso percorso il suo, quello di una donna che si è fatta strada nel mondo delle Stem e che ha scelto – giocoforza – gli Usa per dare ampio terreno ai suoi sogni e farli decollare. “Sacrifici” oggi riconosciuti dalla rivista ‘Time’ che l’ha inserita fra i 100 personaggi più influenti del settore salute. “La mia passione si chiama statistica, data science”, spiega all’Adnkronos Salute. Ma ora nel suo cuore di scienziata c’è “anche l’Ai e il machine learning”. A entusiasmarla “è l’aspetto tecnico di come estrarre informazioni da dati complicati e – ripercorre – per anni mi sono occupata in parallelo non solo di sviluppare algoritmi e metodi statistici in astratto, ma di svilupparli in modo tale che avessero un impatto diretto sulla salute pubblica”. Come raccontano anche i suoi lavori sul legame tra polveri sottili e una serie di effetti negativi sulla salute.
Il riconoscimento del Time suscita in lei un misto di “sorpresa e gioia. Gioia soprattutto per i giovani del mio laboratorio, perché non è solo merito mio tutto questo, ma di tanti ragazzi che hanno lavorato con me negli anni. Se è stato difficile da donna? Sì, e lo è ancora. Il mio grande desiderio sarebbe stato poter dire che le cose sono migliorate, ma ancora non è così. Soprattutto nel mondo della scienza e tecnologia, e nel mondo accademico di alto livello, c’è ancora un ‘gender bias’. E io l’ho sofferto come donna e come donna immigrata. E continuo a combatterlo. Questo riconoscimento è dunque importante anche per ispirare le generazioni più giovani. Spero che mia figlia”, oggi 18enne, “possa avere un impatto migliore”. L’affermazione femminile è un valore a cui tiene molto Dominici. E alle ragazze che vogliono seguire percorsi simili al suo non esita a suggerire: “Non ascoltate chi vi dice di no e andate avanti. Fate quello che avete voglia di fare con passione”.
Lei il famoso tetto di cristallo l’ha sfondato “dal punto di vista scientifico”. “E ne vado fiera – dichiara – però ci sono ancora tante altre cose in più che voglio fare e nel mio percorso ci sono state delle opportunità ancora più in alto per le quali ero qualificata ma non sono stata scelta”. Per spiegare come si esprime questo ‘gender bias’, Dominici fa un esempio su tutti: “Noi donne per essere selezionate in posizioni di altissimo prestigio dobbiamo essere ‘over qualificate’, un uomo viene invece più selezionato sulla base del potenziale. L’ho vissuto anche sulla mia pelle: quando volevo fare un salto in avanti venivo considerata non ancora pronta”. Altro discorso che non piace alla scienziata è quello che si fa sulla personalità femminile: “Se fai la ‘brava bambina’ sorridente che dice sempre sì e fa i compiti, come tutti immaginano tu debba essere, ti mettono i piedi in testa. Se ti rifiuti e decidi di farti valere, allora diventi automaticamente una donna con personalità ‘problematica’”.
E poi c’è il nodo della conciliazione lavoro-famiglia. “Io ci sono riuscita ad altissimi costi. Intanto ho solo una figlia, nata in America, quando sono venuta ad Harvard aveva 4 anni. E ho un marito, anche lui professore, che è stato solidale, abbiamo sempre diviso i compiti di genitori. Poi ho avuto una ‘nanny’ a tempo pieno e una nonna italiana che passava 6 mesi con me negli Usa e 6 mesi a Roma. Quindi con questi tre elementi sono riuscita a conciliare, non in modo facile”, evidenzia l’esperta. In definitiva ci sono ancora schemi penalizzanti per le donne da superare e c’è ancora strada da fare, è il messaggio.
Dominici è poi convinta che restando in Italia – Paese a cui resta molto legata (“ci torno 4 volte all’anno”, dice) – non sarebbe riuscita a finire nella lista del Time. “In Italia – riflette – ci sono degli scienziati fantastici, il problema è che il nostro Paese non ha i fondi e le strutture per fare ricerca di alto impatto, almeno nel mio mondo, dove c’è bisogno di accesso ai dati, ai super computer, a milioni di dollari di ricerca. L’Italia non ha questa potenza di fuoco, ma ha un talento enorme non sfruttato”.
Guardando al presente e al futuro la scienziata ci vede fra le altre cose l’Ai, di cui si parla tanto in questi ultimi tempi, e a suo avviso “può essere utilizzata per rispondere a domande importanti anche sul climate change”. A Dominici piace sottolineare proprio questo, la possibilità di fare la differenza. “La ricerca di alto livello può influire in modo positivo per esempio sulle leggi sugli inquinanti, come abbiamo visto, con un impatto concreto che speriamo si traduca in un’aria sempre più pulita. Negli ultimi 20 anni con tanti altri colleghi abbiamo costruito una piattaforma in cui abbiamo condotto molti studi, dimostrando che la soglia massima tollerabile per questi inquinanti, costruita in precedenza, non era abbastanza bassa per proteggere la salute umana. Sulla base di ciò l’amministrazione Biden l’ha ridotta ulteriormente, cambiando la legge”. Nel dettaglio sotto la lente della scienziata italiana al top negli Usa sono finite le polveri ultrasottili, le PM2.5. Come riporta il Time Dominici è stata “leader nel collegare l’inquinamento da PM2.5 al rischio di morte prematura”. E a febbraio scorso, l’Environmental Protection Agency (Epa) degli Stati Uniti ha avviato un giro di vite riducendo le concentrazioni consentite di queste particelle. “Questo – conclude l’esperta – ora avrà un impatto su altre leggi che regolano gli inquinanti del traffico e degli inceneritori, e avrà un impatto diretto anche sul climate change. Perché cambiano una serie di azioni in grado di incidere anche sulle emissioni e su questo grande problema”.
‘Cliniche mobili’ nel cuore delle crisi
Il viaggio in compagnia degli italiani più influenti del settore salute fa infine tappa ad Haiti, dove una violenta rivolta ad Haiti, esacerbata dalle dimissioni del primo ministro Ariel Henry a marzo, ha provocato centinaia di migliaia di sfollati, causato carenze di approvvigionamenti e costretto a chiusure diffuse di scuole e ospedali. “L’accesso all’assistenza sanitaria di base è un incubo in questo momento”, ha testimoniato Carlotta Pianigiani, coordinatrice dell’emergenza per l’organizzazione umanitaria Alima, che lavora sul campo per fornire assistenza nelle zone di crisi. Le sue parole sono riportate dal Time nel capitoletto a lei dedicato. “L’acqua potabile è un problema – spiega – l’accesso al cibo è un problema e la libertà di movimento è un problema a causa dei continui attacchi”.
Pianigiani guida gli sforzi di una squadra ad Haiti dal 2023, quest’anno l’impegno è stato per l’allestimento di cliniche mobili. L’équipe si occupa di circa 50 persone al giorno, fornendo assistenza primaria e psicologica essenziale alle persone che sono rimaste senza studio medico o ospedale locale di riferimento, perché queste strutture sono state costrette a chiudere. A causa delle continue minacce alla sicurezza e della situazione politica instabile, il team deve essere pronto a modificare i propri piani in qualsiasi momento, e questo rendendo la ‘configurazione mobile’ della loro assistenza particolarmente utile. “Da un giorno all’altro metà dei siti potrebbero chiudere perché le persone sono costrette ad andarsene, quindi dobbiamo adattarci costantemente”, dice Pianigiani.
Il sostegno di Alima è stato fondamentale nel Paese che si sta ancora riprendendo dal catastrofico terremoto di magnitudo 7.0 del 2010 e da una recente epidemia di colera. “Non disponiamo di molte risorse e le sfide sono enormi, ma essere in grado di curare le persone, anche in piccoli modi, come consentire a una madre di accedere ai farmaci per suo figlio o aiutare un bambino a ricordare come sorridere, è così importante e significativo”, racconta l’esperta italiana. “Le persone – conclude – sono ciò che ti fa andare avanti”.