(Adnkronos) – “Quando una malattia non si può guarire, non significa che il malato non si possa curare. Significa però dover cambiare prospettiva: la guarigione non può essere l’obiettivo della cura, ma il suo scopo deve diventare il benessere psicofisico del paziente e del suo nucleo familiare”. Trasmettere questo concetto a una madre e un padre disperati per la sofferenza di un figlio non è semplice: richiede “un’alleanza tra équipe medica e genitori”, che può incrinarsi “quando le terapie rischiano di sfociare nell’accanimento”. Se ciò accade “serve una mediazione, un punto di incontro da cercare insieme, perché non possiamo scorporare il paziente dalla sua famiglia”. In questo senso “la sentenza di un giudice non è un’ingerenza, ma un intervento al quale sarebbe sempre meglio non arrivare. Una sconfitta dell’alleanza terapeutica”. Lo spiega all’Adnkronos Salute Andrea Moscatelli, l’intensivista che all’Istituto Gaslini di Genova seguì il caso della piccola Tafida Raqeeb. Per lei, come per Indi Gregory, i medici inglesi avevano disposto lo stop ai supporti vitali.  

Tafida, colpita da emorragia cerebrale, arrivò al Gaslini nell’ottobre 2019 dal Royal London Hospital e fino a gennaio 2020 fu assistita dal team di Moscatelli, direttore del Dipartimento di emergenza e della Terapia intensiva neonatale pediatrica dell’Irccs pediatrico ligure. Contrariamente a quanto accaduto con Indi, morta nella notte nell’hospice dove era giunta sotto scorta sabato dall’ospedale di Nottingham, per Tafida l’Alta Corte britannica disse sì al trasferimento in Italia. “C’era stata una volontà della famiglia di poter proseguire le cure in Italia, noi avevamo prospettato un piano di cura perfettamente aderente a quella che è la normativa italiana su richiesta dell’Alta Corte inglese e il giudice aveva ritenuto che si potesse rispettare la volontà della famiglia. Ma non in contrapposizione al sistema sanitario inglese”, tiene a precisare lo specialista. “Pensare a un conflitto tra sistemi sanitari sarebbe la cosa più sbagliata”, insiste: “Non c’è il sistema sanitario buono e quello cattivo”.  

Moscatelli non vuole entrare nel merito dei due casi né generalizzare vicende delicate come queste, “estremamente complesse – afferma – da conoscere intimamente prima di esprimere opinioni”. Accetta invece di riflettere su ciò che queste storie insegnano.  

“Il tema è quello delle malattie non guaribili, delle cure palliative. In Italia – evidenzia l’esperto – il quadro normativo è a mio avviso molto avanzato. La legge 219 del 22 dicembre 2017 definisce quali devono essere gli atteggiamenti nei confronti del paziente che non ha una prospettiva di guarigione, con una prognosi infausta a breve termine, e ci dice fondamentalmente che il medico ha il dovere di alleviarne le sofferenze e di astenersi da ogni irragionevole ostinazione o accanimento terapeutico. E’ chiaro infatti che quando si pensa a una cura è importante valutarne la proporzionalità rispetto alla condizione del paziente. Ma mentre noi medici possiamo entrare nel merito di quella che è la dimensione tecnica della cura, la proporzionalità della cura stessa deve essere definita insieme al paziente perché il paziente ha anche la facoltà di rifiutare le cure, fossero pure cure salvavita”.  

“Il tutto – sottolinea Moscatelli – diventa ancora più difficile nel caso di un minore perché un bambino, magari molto piccolo, non può esprimersi, ma i portatori dei suoi interessi sono i genitori. Quindi l’alleanza terapeutica va creata con la famiglia”. Vuol dire che “nei casi disperati, quelli in cui anche la prosecuzione delle terapie rischia di diventare una sproporzione non nell’interesse del paziente, serve una mediazione. Non possiamo scorporare il malato dalla sua famiglia – ribadisce lo specialista – pertanto bisogna cercare insieme di capire qual è il percorso migliore per il paziente, posto che diventano inaccettabili anche nei confronti di un minore terapie che ne possano causare la sofferenza senza una prospettiva, e che esistono limiti imposti dall’etica e dalla deontologia medica”. 

“Il compito del giudice – ragiona il medico – dovrebbe essere un ruolo di mediazione quando gli interessi del paziente non coincidono con quelli della famiglia, però è sempre meglio non arrivare a questo punto ed è anche molto difficile che ci si arrivi. Perché i genitori, se si affrontano le cose in maniera condivisa, in genere riescono perfettamente a comprendere qual è il percorso migliore per il loro bambino”.  

Sul fronte associazioni cattoliche, c’è chi auspica un accordo bilaterale fra Italia e Regno Unito perché il trasferimento di un bimbo inguaribile nel nostro Paese sia sempre ammesso, quando richiesto dalla famiglia e in presenza di una struttura disponibile ad accoglierlo. Ma si può davvero ipotizzare una ‘formula universale’ per evitare nuovi drammi come quello di Indi, mamma Claire e papà Dean? “Temo che non si possa prescindere dall’analisi del singolo caso”, risponde Moscatelli.  

“Quello che posso dire, in generale, è che quando esistono dei conflitti con la famiglia relativamente alla gestione di un paziente ci sono varie strade che si possono percorrere. La prima – illustra l’esperto – è quella di rivolgersi a un consulente, una persona super partes che dia la sua opinione per cercare di introdurre un nuovo punto di vista. Esiste poi la possibilità di favorire il trasferimento del paziente verso un’altro centro dove si possa ricostruire un rapporto di fiducia. Perché purtroppo è abbastanza naturale che la famiglia la perda, nel momento in cui le cose vanno male e un’équipe medica è costretta a prospettare una prognosi infausta. I genitori potrebbero anche non sentirsi allineati con il team con cui hanno a che fare e allora è prevista la possibilità di trasferire il paziente in un altro centro, dove possa essere costruita una nuova alleanza terapeutica. Infine, in ultima analisi, si può ricorrere alla mediazione di un giudice”.  

Questa “è la via da percorrere se le altre strade falliscono”, conclude Moscatelli, l’ultima spiaggia. Ma “sono tutti step che la letteratura scientifica prevede per cercare di gestire nella maniera più morbida possibile quelle che possono essere le differenti visioni tra medici e familiari”. Per avvicinare posizioni che purtroppo, nel caso Indi, sono rimaste opposte.